Grazie a Ghali un italiano può sentirsi come un palestinese alle prese col vittimismo ebraico

Non ho intenzione di polemizzare contro il cantante Ghali Amdouni né commentare l’ultimo Festival di Sanremo (che ormai andrebbe organizzato direttamente a Weimar), ma cogliere l’occasione per rilanciare un mio leitmotiv polemico riguardo alla pressoché perfetta corrispondenza, per noi italiani, come per gli altri popoli europei, tra il colono israeliano in Palestina e l’immigrato musulmano in Italia.

Mi riferiscono, tra le altre cose, al fatto che migliaia, se non milioni, di immigrati vengano nel nostro Paese rivendicando una terra che non è la loro e occupandola quasi militarmente, partendo non dai kibbutz ma da ghetti e no-go zone, e tentando all’occorrenza di imporre il proprio culto connotandone il messaggio universalistico in chiave etnocentrica allo scopo di impedire agli indigeni di godere dei loro stessi diritti qualora nel Bel Paese venisse eventualmente imposta la sharia. Alla questione però ho dedicato fin troppe pagine (Come vi sentireste se la vostra nazione venisse conquistata da rifugiati?; Gli immigrati musulmani sono i nostri coloni israeliani?; Gli yahudi ti hanno mandato qui) e dunque, rimandando ad esse, cerco di venire al punto.

Vorrei partire però da più lontano. Ghali, allo scopo di promuovere il suo pezzo per Sanremo Casa mia, ha rivendicato la propria italianità in maniera strillata ed enfatica: “Sono nato in Italia, mi sposerò in Italia, i miei figli saranno italiani, morirò in questo Paese. Sono anch’io un Italiano Vero”. Va bene, d’accordo, ma cosa significa oggi essere italiano? Rispettare le leggi italiane sarebbe già tanto (cosa che spero valga anche per il rapper nonostante gli errori del passato), ma la retorica populista ci impone di credere che nemmeno gli italiani le rispettino, perciò siamo punto e capo.

Mi pare di trovarmi di fronte al solito giochetto di quel sistema di controllo che chiamo “satanismo politico” (per non scomodare espressioni che coinvolgerebbero altre categorie sensibili) e che concede di definirsi “italiano” solo a chi non lo è, così come, per fare altri esempi, di dirsi “cattolico” solo a chi non pratica tale fede (o tuttalpiù è un pallido cattocomunista), o “europeo” a chi non condivide nulla della storia europea da una prospettiva non tanto etnica, quanto culturale e morale; pena l’accusa di fascismo, fondamentalismo e suprematismo bianco.

Dunque la spacconata post- (o meta-) nazionalista viene lasciata solamente a un cantante di origine tunisina che, proprio in virtù di tale retaggio, può altresì dire quel che vuole a favore della Palestina suscitando solo le ridicole reprimende dell’ambasciatore israeliano a Roma: difficile, a questo punto, giocarsi la carta dell’antisemitismo con chi è stato addestrato a far la vittima sin dalla culla e ha costruito un’identità esclusivamente su suoi piagnistei (un classico caso di rivalità mimetica tra vittimismo arabo ed ebraico che non vale neppure la pena di approfondire).

L’importante è che sia chiaro che uno come Ghali, intervenendo nel dibattito sul conflitto israelo-palestinese, non può non parlare con i toni e la prospettiva di un giovane arabo cosiddetto “di seconda generazione”, e non di un “italiano vero”: ciò va detto indipendentemente dal fatto che all’Italia convenga o meno sostenere lo Stato sionista (e anche questo spero sia chiaro).

L’italiano medio è un sempliciotto boomer (indipendentemente dall’età) che su Israele e la Palestina è stato addestrato a non pensare MAI a un qualsiasi “interesse nazionale”: ecco perché, almeno in questo, uno come Ghali potrebbe effettivamente risultare un “italiano vero” nella misura in cui, come si diceva, egli considera la questione solo da giovane arabo e non da italiano.

Per il resto, l’italiano destrorso o conservatore è obbligato a credere che Israele da baluardo occidentale contro il comunismo sia divenuto baluardo occidentale contro l’islamizzazione, che solo gli israeliani abbiano diritto a quella terra perché c’è scritto nella Bibbia o perché ci abitavano prima degli arabi o perché hanno subito dei torti da certi Grandi Protagonisti del Novecento che comunque hanno fatto anche cose buone; l’italiano sinistrorso o progressista difende i palestinesi solo perché li percepisce come se stessi, cioè sfigati e perdenti, e li riduce a difensori di una qualche forma di umanitarismo o di rappresentanti onorari di tutte le ONG del mondo.

Ai sempliciotti di entrambi di schieramenti non viene mai in mente di pensare, da una parte, che gli ebrei abbiano operato una sostituzione etnica nei confronti dei palestinesi proprio attraverso l’immigrazione di massa, e dall’altra parte, che i palestinesi avrebbero tutto il diritto non di pretendere un semplice stato-ghetto regolato da chissà quale Costituzione arcobaleno, ma di riprendersi la propria terra con qualsiasi mezzo necessario.

Diciamo che forse, ragionando, come si fa coi bambini, tramite esempi concreti tratti dalla vita quotidiana, anche gli italioti potrebbero giungere a un minimo di discernimento sulla questione. Partiamo dal semplicione destrone che passa la vita a festeggiare sui social ogni “scacco matto ai sinistri” e che magari avrà esultato per la ramanzina dell’ambasciatore israeliano contro la “risorsa” cantante (Adesso sono gli ebrei che LE CANTANO E LE SUONANO al festival! Intanto però CARI SINISTRI lo sapete che in Palestina sono VIETATI i MATRIMONI TRA GAYS e uno COME GHYALY verrebbe ARRESTATO per i suoi CAPELLI  LUNGHI?).

Ecco, si dà il caso che ogni politico sionista venga sottoposto a un rigido processo di scrematura all’insegna della hasbarà, cioè della “spiegazione” (ma il significato principale del termine è “propaganda”), la “narrazione” che il “vero israeliano” deve offrire al mondo per mascherare le malefatte dello Stato ebraico. Fare hasbarà, tra le tante cose, significa anche scegliere il bersaglio polemico giusto nel momento politico più opportuno: Ghali, in tal senso, è la tipica “testa di turco” (absit iniura verbis), perché il suo exploit si verifica in un Paese attualmente orientato a destra e con un’opinione pubblica ormai esausta di subire continue angherie dagli immigrati ma sentirsi sempre e comunque definire “razzista” e “intollerante”.

Con tale attacco, il sistema di propaganda israeliano consente al minus habens destroide di formulare nella sua testa la semplice equivalenza spacciatore magrebino = terrorista palestinese. Solo per un miracolo costui potrebbe per un istante percepire una qualche affinità col palestinese sottoposto all’abuso psicologico quotidiano di un aggressore che si presenta ininterrottamente da oltre settant’anni come vittima. Eppure, se si viene paragonati da uno di questi “veri italiani di seconda generazione” all’israeliano che bombarda un ospedale “per un pezzo di terra o per un pezzo di pane” solo perché magari ci si è permesso di affermare che forse lo ius soli non è l’idea giusta per un Paese che sta perdendo la propria identità sotto ogni punto di vista, si dovrebbe cominciare a sentirsi più come un “vero palestinese” che come un “israeliano onorario”.

Per quanto concerne il gonzo sinistronzo, anche lui farà presto la fine del palestinese, come paradossalmente già si può osservare nelle stesse manifestazioni a sostegno della Palestina: i visi pallidi con la kefiah, le barbette e i sandali dopo decenni di monopolio assoluto da pochi anni sono finiti in ultima fila per lasciare il posto a nordafricani scalmanati che di certo non hanno come modello il fattone dei centri sociali, gli azzimati militanti parapiddini o il quarantenne verginello con la tessera dell’ANPI.

Tutti coloro i quali non riescono a pensare all’immigrato se non come “vittima assoluta” andranno probabilmente incontro a un destino simile a quello degli arabi che accolsero i primi profughi ebrei come fratelli in cerca di un riparo dalle persecuzioni delle potenze europee, e dopo pochi anni si ritrovarono, non solo metaforicamente, senza più una casa in cui vivere.

Certo, comprendo che tutto ciò rappresenti un esperimento mentale assurdo, se non ridicolo, nonché provocatorio. Magari tuttavia il normaloide potrebbe cominciare, per un istante, a ragionare sia con il cervello che il cuore, e anche con la pancia, i nervi, le midolla, e non sempre ed esclusivamente col culo (e nemmeno col proprio, tra l’altro).

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