Grazie all’Unione Europa siamo diventati una propaggine dell’Asia (anzi, solo della Cina)

L’Europa deve unirsi per non diventare una “propaggine dell’Asia”: questo tipo di retorica, passata senza soluzione di continuità dalle arringhe dei nazisti alle geremiadi dei medio-progressisti, ha contribuito paradossalmente alla riduzione del Vecchio Continente in uno scalo merci del nuovo imperialismo cinese. Neanche una “propaggine”, quindi, ma un semplice snodo della Via della Seta prossima ventura; e nemmanco “asiatica”, ma solo pechinese.

Il primo imputato del disastro geopolitico è ancora una volta la leadership tedesca: con la tipica miopia -confusa per pragmatismo- che la contraddistingue, Berlino ha tentato di fare degli investimenti cinesi il carburante per imporre la propria egemonia, non rendendosi conto di propiziare un nuovo spazio politico-commerciale in cui le pretese di Pechino avrebbe gradualmente prevaricato le proprie.

Alla luce di questo, si resta quasi ammirati dalla sfacciataggine con cui Angela Merkel ha trovato modo di imputare ai greci la colpa dell’espansionismo cinese in Europa, attraverso la nota cessione del porto del Pireo alla China Ocean Shipping Company (COSCO). Dopo aver umiliato e saccheggiato Atene, gli unni piangono miseria: come se ad aver spalancato le porte del Mediterraneo a Xi Jinping sia stato uno Tsipras qualsiasi e non la deliberata volontà dell’imbelle gabinetto merkeliano di dare una lezione esemplare ai “fratelli” europei. Si prova più disgusto che vergogna a esser sottomessi a cialtroni del genere.

Ma non è finita: l’allargamento a Est dell’Unione, posto in essere nella maniera più improvvisata possibile sempre per la scarsa lungimiranza dei tedeschi, che credevano di farsi una corte di stati cuscinetto, ha offerto ai cinesi un’ulteriore occasione per accerchiare la “propaggine”. Nonostante la stampa italiana (ma anche europea) si rifiuti categoricamente di parlarne, è da quasi dieci anni che il Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare ha creato il 17+1 (che naturalmente loro preferiscono chiamare 1+17), un gruppo attraverso il quale il PCC può fare il bello e il cattivo tempo nell’Europarlamento manovrando a suon di quattrini le sue pedine dell’Europa orientale (Albania, Bosnia, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia e Slovenia).

A riprova della natura non puramente commerciale (o culturale, ah) della liaison, il disastro diplomatico a cui andrò incontro l’UE (sempre insabbiato dalla stampa) riguardo la contesa sino-giapponese nel Mar Cinese Meridionale per le Isole Senkaku-Diaoyu (controllate da Tokyo): di fronte al diktat atlantico di schierarsi col Giappone, l’Europa-Tutta-Unita si trovò spezzata a causa dell’opposizione di Ungheria (chi avrebbe altrimenti pagato per le ferrovie Budapest-Belgrado, la Merkel?) e ovviamente Grecia.

Non sfugga il contesto in cui avvennero tali “maneggi”, quello dell’EU-Japan Economic Partnership Agreement, accordo insignificante dal punto di vista commerciale (l’Europa può esportare formaggi francesi in Giappone togliendo qualche dazio alle Toyota) ma che doveva servire da una parte a contenere l’espansionismo cinese e dall’altra a dare una “lezioncina” a Trump per aver stralciato il famigerato Trattato Transatlantico (TTIP). Come a dire che l’indipendenza europea è fare quello che Washington vuole, ma in ritardo.

Ancora più sconcerta, in tema di “schiaffoni geopolitici”, l’atteggiamento tedesco nei confronti dell’Africa: quello che le gazzette hanno definito “Piano Marshall” è in realtà un investimento di 200 milioni di euro, a fronte dei 200 miliardi messi dai cinesi. I quali, oltre a essere intenzionati a costellarne di porti ogni costa africana, puntano al Maghreb per proseguire la penetrazione nel Mediterraneo: non a caso solo per il porto di Cherchell (Algeria), Pechino ha investito 10 volte di quel che Bruxelles ha messo per l’intera Africa.

In tale risvolto talassocratico rientra la dibattuta questione dei porti italiani, la cui cessione in blocco a “società private” cinesi (sempre rigidamente controllate dal PPC) sembra ormai inevitabile: se la colonizzazione del Pireo non aveva tuttavia impensierito la Merkel, questa volta la possibilità che Trieste potesse fare concorrenza diretta ad Amburgo l’ha spinta a far scendere in campo proprio la Hamburger Hafen und Logistik AG, che alla fine di settembre 2020 ha letteralmente sfondato le linee della nella Piattaforma Logistica del porto giuliano, assumendo il 50,01% della proprietà con un investimento di un miliardo di euro.

Un ulteriore sintomo della divergenza tra efficienza germanica e capitali pechinesi. E a frustrare ancora di più le ambizioni continentali tedesche, quella UK-China Infrastructure Alliance che, sorta prima della Brexit, ora si trasforma in un volano non solo economico per Londra, garantendole la possibilità di pedinare passo passo -nelle forme discrete di una blanda partnership commerciale- le mosse del gigante asiatico nel Commonwealth. Mentalità da Impero e non da propaggine.

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