Gli horror del 2023 sono talmente brutti (quasi più di quelli dell’anno precedente) che a un certo punto ho persino dimenticato di quali avessi già discusso e di quali no (alla fine sono andato a rivedere ed erano obiettivamente i “migliori”: Clock, l’Esorciccio e Cocainorso). Mi rifiuto anche solo di mettere le locandine (bastano i trailer) o andare oltre le cinque righe di recensione. Qui la prima parte.
IL MORSO DEL CONIGLIO (Run Rabbit Run): Sarah, mamma single ginecologa, è la protagonista di un horror psicologico australiano (vi basta?) in cui la creatura infera e terrificante che la fa da padrona è… un coniglio (stranamente bianco, nonostante sia distribuito da Netflix). Succedono cose strane, riemergono traumi infantili, ma in fondo a chi importa (non c’è nulla che faccia paura, ovviamente). Divertente che l’ex marito di Sarah si sia messo con una donna di colore e debba sopportare il figlio di quest’ultima, Toby (“Lil Tyrone” nei meme). Un altro dettaglio buffo è l’insistenza sulla sanità pubblica come panacea di tutti i mali (persino metafisici!): questo vezzo accomuna più o meno tutti gli horror provenienti dalle nazioni del Commonwealth britannico (probabilmente anche quelli di India o Pakistan, anche se sfortunatamente non mi intendo dei loro orrori, almeno non dal punto di vista cinematografico).
FAMILY DINNER: Questo è del 2022 ma ho potuto vederlo solo ora. Si tratta di un horror austriaco (anche questo dovrebbe bastarvi) su una cicciona (Simi) che va a trascorrere le vacanze di Pasqua da sua zia, una telenutrizionista di successo. La famiglia della zia, composta dal marito e da un figlio, rispetta il digiuno quaresimale perché “molto religiosa”, anche se non della religione che intende Simi. Questa gentaglia infatti pratica un culto esoterico cannibale (i cui dogmi sembrano riguardare soprattutto il digiuno alternato), al quale la cicciona riesce a sopravvivere grazie al suo intuito femminile e alla sua voglia di strafogarsi (anch’essa, tutto sommato, femminile). Non mi sento di aver spoilerato perché il difetto principale di Family Dinner (anche il titolo originale è in inglese, nonostante sia recitato in tedesco) è proprio il fatto di essere “telefonato” dall’inizio alla fine, con un susseguirsi di “colpi di scena” che non possono che essere commentati con un “ma non mi dire” (per esempio, quando come portata principale del banchetto pasquale viene portata la carne del cugino, così che egli “vivrà dentro di noi in eterno”, un esito prevedibile già dai primi cinque minuti di film).
OLD MAN: altro film del 2022 ma che mi pare sia arrivato in Italia (non so in quali modalità) solo quest’anno. È l’ennesimo horror “psicologico”, nel senso che alla trama viene conferito un significato solo nella misura in cui sia accetti che ogni suo elemento naturale, soprannaturale e preternaturale sia frutto di demenza o psicopatia individuale e/o collettiva. Il protagonista, Stephen Lang, interpreta un personaggio che per risultare sopportabile dovrebbe essere interpretato da John Malkovich, dato che passa il tempo a sbraitare e a sparare boomerate (“Quelli della mia generazione sono cresciuti come antichi guerrieri greci”) di cui presto si pentirà. A parte l’eccessiva stereotipizzazione dei caratteri che arriva fino alla farsa (il vecchiaccio che vive solitario nei boschi a un certo punto esclama “Sapone?!?” alla richiesta del suo malcapitato ospite), il climax dell’opera è avvolto in una tale nebbia di noia, paradossi e incongruenze narrative che il momento in cui giunge è proprio quello in cui lo spettatore è ormai rassegnato ad accettare i deliri del protagonista, e invece si trova costretto a mettere insieme i pezzi di un puzzle che non combaciano nemmeno a martellate. Questa è la caratteristica che più mi sconcerta dei film (non solo horror) contemporanei: l’incapacità da parte di registi e sceneggiatori di costruire una trama che contempli un “finale a sorpresa” in grado di spiegare se non tutto, almeno il 50% della storia. Viceversa, si appiccica in coda un qualche trauma infantile o fattaccio di cronaca che non fornisce alcuna chiave di lettura per interpretare i “fantasmi” in cui ci si è imbattuti durante la visione. E concedere una “seconda possibilità” (cioè riguardarli con l’intento di capirci qualcosa dalla prospettiva della conclusione) a tali tipi di manufatti non farebbe che aumentare l’irritazione.
WINNIE-THE-POOH – SANGUE E MIELE (Winnie-the-Pooh: Blood and Honey): mi rifiuto anche solo di riportare il trailer di questo slasher (credo si traduca con “merda”) perché è una delle cose più insulse e inutili che io abbia mai visto. Ci sono dei tizi, ispirati alla galassia di Winnie Pooh, che non si capisce se siano uomini mascherati o creature antropomorfe o frutti della fantasia di qualche ragazzino divenuti reali: ad ogni modo, questa masnada di malati mentali comincia ad ammazzare gente a caso per odio verso l’umanità (?). Per giunta è un horror britannico, senza alcun senso né scopo come il loro imperialismo: ad aggravarne la natura fallata, la necessità di imbastire dialoghi che abbiano un minimo di criterio (un inedito del genere in versione inglese, ché di solito nemmeno il più semplice scambio di battute risulta comprensibile). Il risultato è una frase fatta dopo l’altra, roba del calibro di “scateniamo l’inferno”, “ti sbudello”, “ti faccio fuori”, “perché proprio a me” ecc… Irritante dal primo all’ultimo minuto, sono lieto del fatto che sia stato proibito a Hong Kong per non irritare Xi Jinping, che come noto odia l’orsacchiotto britannico per sue personalissime motivazioni.
PIOVE: Solo per non sembrare anti-americano o anglofobo, mi riduco a parlare di un prodotto tutto italiano, Piove, che riesce addirittura a essere peggiore della porcheria di cui sopra. Presentato come film dell’orrore (lo è, ma tagliamo corto con le battute scontate), in realtà è un noir che con la pretesa di una misteriosa fanghiglia grigiastra che esce dai tombini e infetta tutta Roma, vuol parlare di società, violenza giovanile, periferie, solitudine, rapporti familiari e altra robaccia insignificante (s’intende nel momento in cui si tenta di incastrarla a forza in un horror). L’idea che la “pandemia di fango” sia una metafora della violenza come “contagio” sociale è talmente scontata che regista e sceneggiatori non si peritano nemmeno di svilupparla: alla fine la rabbia e l’infezione è come se procedessero in parallelo, tanto che si potrebbe dimezzare perfettamente la pellicola tra una versione soporifera di Blob e un classico “film d’autore” à la Marco Tullio Giordana (ci siamo capiti). Ecco, almeno da un film brutto se ne potrebbero fare un paio di bruttini (perché non ci hanno pensato, gli ideatori di questo scempio?). L’unico momento di vero orrore in tutto ciò è rappresentato dal modo in cui la stampa italiana è riuscita a discutere di ‘sta roba: solo elogi sperticati e proclami di un nuovo radioso futuro per l’industria cinematografica nazionale.
PS: In coerenza col proposito di boicottare le locandine di questi film, ho scelto di utilizzare come immagine principale dell’articolo un poster inventato dall’intelligenza artificiale.
ma la recensione di “The Nun II” quando arriva?