Hayekian communism
(Branko Milanović, 24 settembre 2018)
Comunismo hayekiano: sembra una contraddizione in termini, un paradosso, invece può esistere davvero. Siamo abituati a pensare in categorie pure, mentre la vita è molto più complessa e piena di paradossi. Uno di questi è che la Cina rappresenta davvero un esempio di “comunismo hayekiano”.
Pare che in nessun luogo del mondo la ricchezza e il successo materiale siano celebrati in maniera così sfacciata come in Cina. È probabile che ciò sia l’ovvia conseguenza di uno sviluppo economico tanto rapido quanto incredibile. I ricchi imprenditori sono celebrati dalla stampa, in tv, nelle conferenze. Le loro storie sono portate a esempio per le masse. Ayn Rand si sentirebbe a casa. E così anche Hayek: una enorme quantità di energia è stata liberata dal miglioramento delle condizioni di un miliardo e mezzo di persone (il doppio rispetto a Europa e Stati Uniti messi assieme). I cinesi si sono imbattuti in teorie economiche prima inaccessibili o sconosciute, hanno organizzato in modo schumpeteriano nuove combinazioni di capitale e lavoro, creando ricchezza su una scala quasi inimmaginabile (certamente inimmaginabile per la Cina di quarant’anni fa).
A una grande cena di gala a Pechino ci sono state presentate le storie di cinque capitalisti cinesi che, partiti da zero negli anni ’80, oggi sono miliardari (in dollari). Uno ha trascorso anni al confino durante la Rivoluzione Culturale, un altro si è fatto sette anni di prigione per “speculazione”, il terzo ha fatto il suo “apprendistato” capitalista -come ha ammesso candidamente- truffando gente in Asia orientale (“In seguito ho appreso che se vuoi davvero diventare ricco, non devi imbrogliare: barare è da perdenti ”). Hayek sarebbe rimasto affascinato da queste storie. E avrebbe gioito nell’apprendere che l’Associazione Marxista dell’Università di Pechino rischia lo scioglimento per il suo sostegno ai lavoratori in sciopero di Shenzhen.
C’è una cosa in cui tuttavia Hayek si è sbagliato. Questi incredibili successi personali (e sociali) sono stati raggiunti sotto il dominio di un singolo partito, il Partito Comunista Cinese. La celebrazione della ricchezza parte infatti dai marxisti. Lo sviluppo, la scolarizzazione, l’uguaglianza di genere, l’urbanizzazione e una crescita più rapida rispetto al capitalismo, furono i pretesti per legittimare le rivoluzioni comuniste che si svolsero nei Paesi in via di sviluppo. Lo disse anche Lenin, e Trotsky cercò di metterlo in pratica con l’industrializzazione su larga scala; poi Stalin fece il resto: “Siamo indietro di cinquanta o addirittura cento anni rispetto ai paesi avanzati. Dobbiamo colmare questa differenza in dieci anni o verremo schiacciati”.
Ricordo quando in Jugoslavia, da liceale, scandagliavo i giornali per trovare gli indicatori della crescita industriale. Dato che la Jugoslavia era allora tra le economie in più rapida crescita al mondo, rimasi profondamente deluso nello scoprire che il tasso di crescita mensile (annualizzato) sarebbe sceso al di sotto del dieci percento. Pensavo che il dieci percento fosse il normale tasso di crescita delle economie comuniste: perché altrimenti essere comunisti se non per svilupparsi più velocemente del capitalismo?
Quindi la celebrazione della crescita (nuove strade e treni veloci, nuovi complessi abitativi, nuovi viali ben illuminati e scuole ben ordinate) comincia naturaliter dai comunisti non meno che dagli imprenditori hayekiani (come rappresentazione plastica di ciò, andate a leggervi le bellissime pagine delle memorie di Neruda Confieso que he vivido dove trasuda il piacere nel vedere dighe costruite dai sovietici). La differenza è che gli hayekinani celebrano il successo privato come motore del benessere generale, mentre per il comunismo anche il successo deve essere “socializzato”.
Tutto ciò non è però accaduto. Gli sforzi collettivisti hanno funzionato per un decennio o due, ma alla fine la crescita è svanita, facendo subentrare un cinismo diffuso. Fu consentito alla Cina e a Deng Xiaoping di inciampare nelle contraddizioni di un modello che avrebbe mantenuto il predominio del Partito Comunista ma consentito agli imprenditori piena libertà d’azione e approvazione sociale. Avrebbero lavorato, fatto soldi e arricchito molti altri in tale processo, ma le redini del potere politico sarebbero rimaste saldamente nelle mani del Partito: i capitalisti forniscano pure il motore e il carburante, ma a tenere il volante sarà sempre e comunque il Partito.
Le cose sarebbero andate meglio se anche il potere politico fosse stato nelle mani dei capitalisti? Questo è dubbio. Avrebbero forse ricreato il governo debole e incompetente di Nanchino degli anni ’30. Non avrebbero dunque lavorato duramente, ma avrebbero usato il potere politico per mantenere i propri privilegi economici. È uno dei problemi chiave del capitalismo statunitense, oggi che i ricchi controllano sempre più il processo politico e quindi spostano gli incentivi economici dalla produzione e dalla concorrenza alla creazione e alla conservazione di monopoli. Molto probabilmente sarebbe andata così anche in Cina, ma proprio perché la sfera politica è rimasta in gran parte isolata dalla sfera economica che i capitalisti hanno potuto tranquillamente occuparsi della produzione e tenersi alla larga dalla politica (per quando il Partito si sia dimostrato progressivamente piuttosto permeabile alla corruzione).
Il fatto che la Cina non sia ancora incespicata in tale paradosso potrebbe avere diversi spiegazioni, tra le quali la millenaria tradizione burocratica imperiale oppure a storica tra Partito e Kuomintang (una combinazione inedita per il mondo comunista). Ci si potrebbe domandare se ciò sarebbe potuto accadere anche altrove. Per esempio, la Nuova Politica Economica di Lenin non fu molto diversa dalle politiche cinesi degli anni ’80; tuttavia Lenin vide il NEP come una concessione temporanea ai capitalisti, perché credeva che il socialismo fosse più progressista e avrebbe quindi “scientificamente” generato una crescita maggiore. Forse sono solo i fallimenti del Grande balzo in avanti e il caos della Rivoluzione culturale che hanno frustrato la leadership cinese e convinto Deng e gli altri che l’iniziativa privata sarebbe stata più “progressista” della pianificazione sociale e delle imprese statali. Lenin non poteva arrivarci, era ancora troppo presto.
Mi chiedevo anche che cosa avrebbe fatto uno Stalin in Cina. Probabilmente sarebbe stato contento di vedere il suo nome ancora venerato in un pantheon (in una grande libreria nel centro di Pechino, la prima fila di libri sono traduzioni di classici marxisti: lo stesso Marx, Engels, Lenin e… Stalin. Pochissime persone li sfogliano. Le file successive, quelle sulla gestione patrimoniale, l’economia finanziari gli investimenti in borsa ecc. sono molto più popolari). Stalin sarebbe stato colpito dalla crescita cinese; dal vasto potere dello Stato e dalla capacità del Partito di controllare in modo sofisticato e discreto la popolazione.
Stalin avrebbe apprezzato il successo economico e il potere militare, ma probabilmente sarebbe rimasto scioccato dalla ricchezza privata. È difficile pensarlo in uno stesso contesto con Jack Ma. La reazione di Hayek sarebbe stata l’opposto: sarebbe stato felice che le sue affermazioni sull’ordine di mercato spontaneo fossero state rivendicate in modo molto enfatico, ma non avrebbe capito che ciò è stato possibile solo sotto il dominio di un Partito Comunista.
Nessuno sarebbe rimasto indifferente di fronte alla vicenda economica di maggior successo di tutti i tempi. E nessuno l’avrebbe compresa fino in fondo.