La sostituzione etnica è un problema reale, non una fantasia francese

Le polemiche seguite all’utilizzo dell’espressione “sostituzione etnica” da parte del ministro del governo Meloni Francesco Lollobrigida (“Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro”) lasciano il tempo che trovano e meritano di esser considerate come ennesimo “sclero” di un sistema che in qualche modo dovrà essere abbattuto (si spera in maniera pacifica).

Quello su cui vorrei concentrarmi è la fake news che l’idea del Ministro abbia origine da “intellettuali francesi di estrema”: si tratta di una vera e propria bufala creata nei laboratori politici degli Stati Uniti dopo l’avvento di Donald Trump al potere e che va rimessa anch’essa al suo posto prima che si sclerotizzi come ennesimo teorema sinistroide, nonostante, va detto, sembra che il processo di dogmatizzazione si sia già compiuto se ormai il concetto è accettato anche da intellettuali di destra (o presunti tali) come il politologo Marco Tarchi, che proprio commentando le parole di Lollobrigida ha dichiarato a “Il Giornale” (23 aprile 2023) che il tema della “sostituzione etnica” sarebbe

«una discussione importata dalla Francia, dove è stato lo scrittore Renaud Camus ad introdurre il concetto con la formula Grand Remplacement per stigmatizzare la forte crescita della popolazione di origine straniera nel suo paese. Contrariamente a quanto sostengono quanti in Italia lo citano senza averne letto una riga, Camus non sostiene che questo fenomeno sia il frutto di una strategia o di un complotto, ma la conseguenza di una serie di scelte politiche della classe dirigente da lui criticate. Benché, falsificando la realtà, Wikipedia lo presenti come un “militante di estrema destra”, Camus, già comunista e difensore dell’omosessualità da ogni forma di discriminazione, non ha niente a che vedere con il fascismo. È e rimane un intellettuale indipendente».

Prendo Tarchi come bersaglio polemico non perché abbia qualcosa contro di lui (anche se come pensatore ha perso quasi tutta la sua antica originalità), ma perché non riesco a commentare le centinaia di pistolotti parapiddini propinati dalla stampa di sistema in questi giorni. Del resto il politologo dice una verità sulla “famiglia di provenienza” di Renaud Camus, seppur proprio a partire da questo tema bisognerebbe cominciare a puntualizzare, osservando che più che un militante omosessuale lo scrittore francese è apertamente e orgogliosamente pedofilo, o quanto meno lo è stato negli negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, epoca in cui -è doveroso ricordare- le due categorie si compenetravano a vicenda (non c’era stata ancora l’istituzionalizzazione del sacro acronimo LGBT), come testimonia la natura delle prime battaglie di “liberazione” degli omosessuali  in tutto l’Occidente, concentrate perlopiù sull’abbassamento dell’età del consenso (ma questo è un capitolo a parte).

Per tornare subito in tema, a partire dagli anni ’10 del nuovo secolo Camus si è reinventato ideologo di estrema destra senza tuttavia mai rinunciare all’ispirazione “libertaria” delle origini, in special modo nella polemica contro gli immigrati di fede islamica. Tale vezzo, quello dell’islamofobia (non disdegnata dalla grande stampa quando c’è da difendere Israele), non ha però garantito alle sue idee un’adeguata diffusione quanto l’avvento di Donald Trump e la necessità da parte del mainstream di dimostrare che il Presidente repubblicano fosse il nuovo Hitler.

Infatti, a partire dal 2017, la macchina di propaganda pseudo-progressista d’oltreoceano ha speso parecchie energie nel mettere in piedi un pantheon gallicano ultra-reazionario allo scopo di stabilire falsi paralleli storici tra il milieu antidreyfusards (per loro proto-nazista) dei Maurras, dei Drumont, dei Batault e qualche odierno intellettuale francese stile Nouvelle Droite o giù di lì. Nell’agosto del 2017 una insignificante manifestazione di estrema destra (Unite the Right) durante la quale venne scandito tra i tanti slogan anche la frase You will not replace us (“Non ci sostiutirete/rimpiazzerete”) venne trasformata dai media in una sorta di Woodstock trumpiana e il “rimpiazzismo” assurse a nuovo spauracchio reazionario.

Da lì in poi cominciarono a fioccare i reportage sulle “radici francesi del suprematismo bianco americano” con tanto di interviste allo stesso Camus direttamente dal suo château della Guascogna, mentre lo storico Paul Hanebrink imbastì uno studio sul “mito del bolscevismo giudaico” per collegare l’antisemitismo contemporaneo americano a quello dell’Europa della prima metà del XX secolo, nel quale portò ad esempio proprio la manifestazione di cui sopra, affermando che slogan come You will not replace us fossero stati “coniati originariamente dagli intellettuali francesi di estrema destra per demonizzare gli immigrati”. Ma, come direbbero i piddini yankee, There’s a lot to unpack here

Si è detto della trumpofobia e del bisogno conseguente di preparare al “nuovo Hitler” un corredino ideologico di tutto rispetto. Aggiungiamo anche l’annoso pregiudizio americano nei confronti dei francesi, intensificatosi a “destra” in modo osceno con l’avvento del New American Century ma per nulla estraneo anche alla “sinistra” (e che si può far risalire perlomeno alla cosiddetta polemica tra analitici e continentali) e otteniamo la ricetta perfetta per il nuovo pastone medio-progressista. Che, in ultima analisi, è solo un modo come un altro per dimostrare che non esiste alcuna “sostituzione etnica”, che l’immigrazione è un bene assoluto e che i mali accidentali provocati da tale fenomeno sono comunque superabili attraverso la completa “integrazione” (in una società che i sostenitori dell’immigrazione selvaggia considerano ingiusta e insopportabile ma che detiene guarda caso come unico fattore positivo quello di essere aperta all’integrazione).

Questo è il punto: ridurre una posizione politica a “mal francese” è un modo per negare totalmente il problema. Eppure che sia in atto una sostituzione etnica è un dato di fatto, tanto è vero che i più accaniti avversari del concetto sono gli stessi che lo esaltano in quanto fenomeno necessario alle nostre società per sopravvivere. In effetti non si capisce perché nessuno riesca esplicitamente ad ammettere di considerare la sostituzione etnica come un qualcosa di utile e vantaggioso alle società occidentali: in fondo, sarebbe una opinione legittima (almeno a livello politico) esser persuasi che gli italiani siano una stirpe portatrice di vizi secolari (dalla corruzione all’omofobia) e auspicare che tale gente venga al più presto rimpiazzata da una nuova etnia afro-slavo-bangla-globo-qualcosa (anche se per Giuseppe Prezzolini l’Italia “da Roma in giù” era già “africana o balcanica”), ispirata ai valori dell’islamo-transessualismo o giù di lì.

“Etnia” è un’espressione che non si riferisce solamente ai caratteri fisico-somatici; al contrario, tiene in considerazione elementi culturali, sociali, nonché linguistici e storici forgiati nei secoli (se non nei millenni). E nemmeno gli studiosi riescono ad accordarsi su una definizione univoca, come d’altro canto si può evincere dalla confusione che emerge nell’identificare un’etnia rispetto ad un altra: per fare solo un esempio, è con enorme difficoltà che l’intellighenzia americana è riuscita a includere personaggi come Barack Obama o Kamala Harris sotto l’etichetta “afro-americano”, che dal punto di vista etnico dovrebbe applicarsi solo ai discendenti dagli schiavi e non a qualsiasi statunitense di origine africana (come è Obama, mentre la Harris è indo-giamaicana). Peraltro, nonostante un afro-americano sia assimilabile a qualsiasi altro americano, viene comunque considerato un’etnia distinta da studiosi che poi magari riducono i bosniaci a tutte le altre comunità balcaniche nonostante l’abissale differenza culturale con croati e serbi.

Non voglio però perdermi in diatribe noiose. L’importante è che si abbia il coraggio, o almeno l’onestà, di riconoscere che la questione esista, piuttosto che negarla con la bava alla bocca per poi riaffermarla un attimo dopo in senso positivo, oppure additare “problemi ben altri” senza riuscire ad ammettere che sebbene l’afflusso di milioni di giovani stranieri si innesti in uno scenario di generale decadenza non può non essere considerato un fattore neutrale nel processo. Se poi si vuole giocare alla “caccia agli spettri” e scommettere su chi prospera sull’ideologia più compromettente, sul versante “immigrazionista” si aprirebbe un campo sterminato (e inesplorato), tra suggestioni di schiavismo mascherate da filantropia e utopie basate sull’odio di se stessi (poi è un attimo sconfinare nella psicopatologia).

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