Derek Chauvin accoltellato in prigione: farà la stessa fine di Jeffrey Epstein?

Penso siano note a tutti le vicende legate al nome di Derek Chauvin, un poliziotto americano che un giorno come tanti è uscito di casa per andare al lavoro ed è finito alla gogna per esser stato l’ultimo sbirro rimasto a svolgere il suo dovere senza obbedire ai dettami dell’anarco-tirannia, la quale obbliga i suoi pretoriani a essere deboli con i forti e forti con i deboli.

I media hanno riportato gli eventi come una sadica esecuzione di un afroamericano indifeso (George Floyd) da parte del solito poliziotto razzista bianco. In realtà le cose sono andate diversamente: nella serata del 25 maggio 2020 un dipendente di un negozio di Minneapolis, convinto che Floyd avesse pagato un pacchetto di sigarette con una banconota falsa, ha avvisato la polizia anche perché spaventato dal suo grave stato alterazione (dovuta all’assunzione di varie sostanze, tra le quali il famigerato fentanil).

In queste situazioni di norma la polizia viene sempre coinvolta, perché la maggior parte delle persone che paga con soldi contraffatti non lo fa in maniera deliberata, dunque l’unico elemento di eccezionalità presente nel contesto era l’incapacità da parte di Floyd di “mantenere l’autocontrollo”. È stato perciò tale atteggiamento ad aver causato la reazione del poliziotto, il quale tutto sommato si è limitato a immobilizzarlo con una mossa che le forze dell’ordine sono tenute ad utilizzare per evitare di dover sparare a un sospetto disarmato.

L’accaduto, o per meglio dire la sua rappresentazione confezionata dal sistema politico-mediatico ha portato a una serie di cambiamenti notevoli nella vita dell’americano medio: i saccheggi di Black Lives Matter sono stati sostanzialmente legalizzati (e in molti stati il furto stesso è stato depenalizzato), mentre i tagli operati alla sicurezza pubblica sulla scia dello slogan defund the police hanno provocato un immediato aumento degli omicidi nella stessa città di Floyd. Superfluo accennare all’isterismo di massa all’insegna dell’odio verso i bianchi americani sobillato dalle agenzie culturali, che ha generato un clima da guerra civile ormai perenne.

Il processo a Chauvin è stato condizionato in maniera pesante dalla politica (Joe Biden è intervenuto direttamente invocando una “sentenza giusta”) e come è noto il poliziotto è stato condannato a oltre vent’anni di galera. Ironia della sorte (si fa per dire), proprio nel momento in cui stavano emergendo nuovi dettagli sul caso, il 25 novembre l’ex poliziotto è stato accoltellato nella prigione di Tucson da un altro detenuto, in circostanze non ancora chiarite (ma è impossibile negare che un certo tipo di propaganda non abbia fatto presa sulla popolazione carceraria, composta perlopiù da persone di colore). Probabilmente Chauvin è già morto ma la notizia non è stata ancora diramata per pianificare la gestione della reazione “popolare”.

Ad ogni modo, le ultime rivelazioni sugli eventi non sono venute dal processo Floyd in sé (il quale, come si è già osservato, ha espresso una sentenza più ispirata al clima mediatico e politico del Paese che alla necessità di stabilire come si siano svolti effettivamente i fatti) ma da una causa intentata da una ex dipendente dell’ufficio del procuratore della contea di Hennepin (sempre in Minnesota), l’avvocatessa Amy Sweasy, nella quale sono state raccolte testimonianze sulla pressione eccezionale che il sistema giudiziario dello Stato ha subito durante il processo a Chauvin.

Nella sua deposizione (ovviamente rilasciata sotto giuramento), la Sweasy ha riferito una discussione avuta il giorno dopo la morte di George Floyd con il medico legale incaricato della sua autopsia, che avrebbe sostenuto che sul corpo della vittima non ci fossero tracce di “lesioni alle strutture vitali del collo” e dunque di “asfissia o strangolamento” e avrebbe chiesto all’avocatessa stessa «Cosa accadrebbe nel momento in cui le prove reali non coincidessero con la “versione ufficiale” [public narrative] già stabilita [da politici e media]?», ripondendosi che «Questo è il tipo di caso che può distruggere una carriera».

A risultare letale sarebbe stata una overdose di fentanil e altre sostanze, come del resto era parso subito ovvio a chiunque, nonostante l’autopsia ufficiale avrebbe poi riportato come causa del decesso dell’afroamericano un “arresto cardiopolmonare” derivante dalla “compressione del collo”.

Ricordiamo en passant che il verbale della prima autopsia, quella in questione, venne pubblicato immediatamente dalla stampa, e ancora campeggia sul sito del New York Times in formato pdf. In esso già nella seconda pagina si può leggere: “Non sono state identificate ferite potenzialmente mortali”; “Negativa la dissezione sottocutanea della parte posteriore e laterale del collo, delle spalle, dei fianchi posteriori e dei glutei negativa per ricerca di traumi occulti“; “Sostanze psicoattive presenti nel sangue: fentanil, norfentanil, 4-ANPP, metamfetamine, 11-idrossi-delta-9-tetraidrocannabinolo, delta-9-tetraidrocannabinolo“.

L’eventuale morte di Chauvin consentirebbe ora di insabbiare tale testimonianza e mettere a tacere qualsiasi obiezione, anche solo morale, all’indecente spettacolo messo in piedi in questi anni. Molti commentatori (“complottisti di destra”) hanno già avanzato paragoni con la fine di Jeffrey Epstein, suicida in carcere nel 2019 dopo il coinvolgimento nel traffico di minori di una fetta importante dell’establishment americano. Di certo la calata del sipario arriva proprio nel momento più opportuno per chi ha combattuto un Kulturkampf strumentalizzando impunemente tutta questa faccenda.

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