La peste è una questione politica, non tecnica

Solo qualche breve osservazione su quanto sta accadendo riguardo al coronavirus, perché non vorrei ripetermi: siamo nel fatidico “stato d’eccezione” schmittiano, e qualsiasi decisione ora è eminentemente politica, a cominciare dal delegare alla medicina l’esercizio della “sovranità”, peraltro una mise en abyme del concetto stesso, visto che il “parere degli esperti” non è come al solito unanime ed è chi detiene il potere a decidere chi ascoltare.

Il governo italiano, seppur in parte giustificato dalle circostanze, si è mosso in modo decisamente maldestro: in principio la sua azione è stata guidata da quell’ideologia liberal e sinistreggiante che teme che qualsiasi limitazione alla circolazione di merci e persone (e di persone trasformate in merci) possa riportare in auge il fascismo, il razzismo, il sessismo, l’omofobia eccetera. Questa sorta di socialismo arcobaleno, che confida nel consumismo come unico fattore di coesione sociale, ha dettato la linea per giorni infiniti, con arroganti iniziative all’insegna dell'”Abbraccia Un Cinese”, scorpacciate di involtini e apericene meneghine contro il “panico e l’allarmismo”.

Dopodiché è giunta una colossale marcia indietro e si è arrivati alla quarantena di massa, alla chiusura dei confini, alla serrata totale, ai militari qualificati come agenti di pubblica sicurezza eccetera… In tutto questo, nessuno ha ammesso di essersi sbagliato, anzi la “parte migliore del paese” è passata, con ammirevole chutzpah, dallo stigmatizzare il terrorismo psicologico dei “sovranisti psichici” che volevano chiudere tutto strumentalizzando la paura, al prendersela con gli “italiani irresponsabili” che scendono nel giardinetto sotto casa col cane.

Sulle opposizioni, stendiamo un velo pietoso: del resto “il potere logora chi non ce l’ha”. Alle prossime elezioni ricorderemo comunque chi ha tentato di favorire un altro golpe tecnico in circostanze d’emergenza nazionale.

Veniamo invece alla questione esiziale, che è metapolitica: il governo giallo-rosso, più per dilettantismo che per coraggio, ha sperimentato le due vie principali alla risoluzione della crisi, tentando prima di “lasciar fare” e, un attimo dopo essersi accorto che il sistema sanitario avrebbe ceduto, istituendo una sorta di stato di polizia soft. Anche la stampa ha rispecchiato l’imbarazzante voltafaccia, come si evince dal confronto tra due prime pagine de “Il Giorno” a pochi giorni di distanza: da “Viva l’Italia che non ha paura” (venerdì 28 febbraio) a “Fate come in Cina” (martedì 10 marzo).

Credo che indipendentemente da come si risolverà la pandemia, questa confusione avrà un prezzo politico tanto alto quanto quello che i partiti avrebbero pagato se avessero deciso di mantenere la linea iniziale. Che è poi quella che attualmente stanno tenendo, per esempio, le autorità svizzere: “Abbiamo tutti l’interesse affinché la malattia si diffonda, perché questo fa sì che poi diventiamo immuni e contenendo la malattia, ma la diffusione deve essere lenta e controllata“.

Ancora più marcata, da questo punto di vista, la posizione britannica:

“La strategia del governo inglese per ridurre al minimo l’impatto del Covid-19 è quella di permettere al virus di passare attraverso l’intera popolazione, in modo da acquisire l’immunità del gregge, ma a una velocità molto più lenta, in modo che coloro che soffrono dei sintomi più acuti siano in grado di ricevere il supporto medico di cui hanno bisogno, e in modo tale che il servizio sanitario non sia sopraffatto dal numero di casi che devono essere trattati”.

Boris Johnson ha presentato la scelta di evitare il lockdown e permettere all’epidemia di propagarsi in termini drammatici ma schietti (“Voglio essere onesto col popolo britannico: molte famiglie perderanno prematuramente i loro cari”), attirandosi la reazione sconcertata di Nigel Farage: “Boris Johnson afferma che adotteremo misure in futuro, ma non ora. Questa non è leadership”; “Quindi la strategia del governo è che è il COVID-19 uccida centinaia di migliaia di persone in modo da sviluppare l’immunità del gregge. Non ci posso credere”.

Al contrario, pare che la grande stampa britannica, almeno per ora, non sia sfavorevole al “tirare dritto”: per l’opinione pubblica inglese è forse meglio “morire di peste che morire di fame”. Ad ogni modo Johnson non si è limitato a derubricare il coronavirus a “una semplice influenza”, ma ha posto al suo elettorato i termini del dilemma nel modo più cristallino possibile, richiamandolo esplicitamente al sacrificio: “Questo paese supererà questa epidemia, così come ha già vissuto molte esperienze più difficili”.

La “sovranità della decisione” in questi frangenti è fondamentale: in caso la scelta finale dei giallo-rossi si rivelasse più efficace di quella dei conservatori inglesi, Giuseppe Conte e i suoi (nuovi) alleati non potrebbero comunque “spenderla” politicamente, poiché ormai la percezione è quella che sia stata la pandemia a indirizzare le loro scelte. A tal proposito, c’è chi vorrebbe interpretare questa mossa “allarmistica”, da parte degli stessi che fino a un attimo prima sembravano assolutamente convinti che il coronavirus si trattasse di una “banale influenza”, come un machiavellico tentativo di sforare gli angusti parametri finanziari in cui l’Unione ha rinchiuso da tempo le economie dell’eurozona e superare con l’alibi dell’emergenza il dikitat dell’austerità.

Anche qui, però, non si capisce perché l’elettorato dovrebbe premiare delle scelte che sono state fatte sulla scia di una pandemia e non secondo un preciso programma politico. Tuttavia, per quanto imbarazzante, questa è ancora una lettura “ottimistica”. Perché ne esiste un’altra molto più angosciante: che si voglia far passare l’idea che i criteri emergenziali siano gli unici coi quali si possa gestire un’epidemia in tempi di austeriy. Sì, potremmo quasi definire tutto questo una prosecuzione dell’austerità “con altri mezzi”, considerando la politica di tagli indiscriminati in questi anni ha portato l’Italia sempre più in basso nelle classifiche europee sulla qualità della sanità pubblica.

posti letto ogni 1000 abitanti in Europa: l’Italia (scesa a 3,6) “in rosso” rispetto a Germania (8) e Francia (6)

Come sostiene “Valori” (Emergenza coronavirus, i tagli alla sanità che non bisognava fare, 10 marzo 2020):

“Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il nostro Paese ha dimezzato i posti letto per i casi acuti e la terapia intensiva, passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Un taglio del 51% operato progressivamente dal 1997 al 2015, che ci porta in fondo alla classifica europea. In testa la Germania con 621 posti, più del doppio […]. Mentre le cronache raccontano del personale sanitario allo stremo, occorre ricordare che la sanità pubblica nazionale ha perso, tra il 2009 e il 2017, più di 46 mila unità di personale dipendente“.

Questo dovrebbe portarci alla conclusione che certe misure straordinarie (e probabilmente anti-costituzionali) sono state poste in essere non tanto per il timore della “peste”, quanto per i suoi effetti su un sistema sanitario già al collasso. In effetti questa rigidità non rientra nel carattere nazionale (nonostante i cittadini italiani stiano dando prova di grande dignità): pensiamo, per esempio, a un popolo come quello giapponese, in cima alla classifica mondiale dei posti letto ogni mille abitanti (così come la Corea del Sud), che avrebbe potuto optare per una soluzione “alla svizzera” o “all’inglese”.

Al di là di luoghi comuni e generalizzazioni, è evidente che in tal caso abbia prevalso una mentalità “orientale”, che però non sappiamo quante democrazie occidentali possano permettersi senza perdita dal punto di vista della legittimità (altro che “Fate come in Cina”). La scelta di alcuni Paesi di favorire gradualmente l’immunità di gregge (lasciamo stare il caso tedesco, che è sui generis e declina sempre tutto in termini di Götterdämmerung) sembra ispirata anche dalla sicurezza che i loro sistemi sanitari possano reggere l’impatto. Una sicurezza che l’Italia perennemente “commissariata” non ha più, e alla quale deve sopperire con quarantena e coprifuoco di massa.

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