Toubab. “In Africa un bianco lo noti a un chilometro di distanza”

La testimonianza di una giovane “missionaria laica” in Senegal, risalente al 2013:  la riporto solo per il fatto che anche lei si è accorta che “in quei Paesi ti si nota subito se sei bianco perché tutti sono neri” (come mi disse un’amica, io non lo sapevo). Questa considerazione mi diverte sempre. Vi prego però di credermi che ogni riferimento a recenti fatti di cronaca è assolutamente casuale.

Heyo Toubab, Give Me a Present!!!
(Kimboland, 17 settembre 2013)

Toubab. Una parola che continuerà a tormentarmi per il prossimo anno e mezzo. In Senegal “toubab” è un’espressione che significa in generale “occidentale”, “straniero” o “bianco”. Per gli americani parlare di differenze di razza è un argomento imbarazzante. In Senegal invece è esattamente il contrario. Nel caso vi stiate chiedendo di che colore è la mia pelle: sono bianca. Con quel termine i senegalesi indicano un fatto palese, cioè quanto bianca e diversa sia da loro. Cosa significa tutto questo per un senegalese? I “toubab” sono tutti quei supericchi con le carte da credito in tasca pronti a fare regali a tutti quelli che incontrano (sono sarcastica…). La cultura senegalese è molto altruista e aperta all’altro. Quello che chiedi ti viene dato. Molti volontari hanno problemi con il termine “toubab” e con il significato che sottende. Spesso ci vengono chiesti soldi, oppure ci fanno proposte di matrimonio, o semplicemente vogliono le nostre cose. Così è la loro cultura, lo fanno con tutti. Noi “toubab” ci sentiamo più in imbarazzo perché non siamo abituati a queste richieste esplicite. Ciò che veramente mi disturba non è il termine in sé o le attenzioni che ricevo, ma la sensazione costante che io non sono una di loro e non lo sarò mai. Non importa quanto possa adattarmi alla loro cultura o perfezionare il mio pulaar, perché sarò sempre straniera. Riusciranno ad accettarmi? Non ne sono sicura. Veniamo presi di mira soprattutto perché siamo immediatamente individuabili. Io stessa posso accorgermi di una persona bianca a un chilometro di distanza. A questo dobbiamo aggiungere che per i senegalesi tutti i toubab sono persone ricche che possono mantenere i talibes (studenti coranici che mendicano per le strade) e i bambini che desiderano un petit cadeaux. All’inizio era molto fastidioso, ma ora mi limito a dire no o a dar loro qualcosa. L’altro giorno stavo andando in bicicletta per le vie di Kolda sgranocchiando una pannocchia quando un ragazzino mi ha fermata dicendo: «Yo toubab, okk kam tabano!» [“Ehi bianca, dammi la tua pannocchia”]. Ero piena e il mais non era così buono (infatti è quello che solitamente negli Stati Uniti diamo al bestiame), quindi l’ho dato al bambino. Lui ovviamente non se l’aspettava, i suoi occhi si sono illuminati e ha cominciato a corrermi dietro per chiedere altro mais. Oggi invece qualcun altro voleva la mia bicicletta, ma mi sono opposta. A volte mi ribello e dico a loro che dovrei essere io, in quanto ospite, a pretendere regali da loro. Alcune volte questa strategia mi si ritorce contro, perché loro mi offrono l’unico cibo che hanno o i cento franchi senegalesi che hanno ottenuto in un giorno di questua: di solito per prenderli in giro faccio finta di accettarli, ma poi glieli restituisco immediatamente. Per dirla con mio padre, “Chi si ferma è perduto”. Grazie papà, hai capito com’è il Senegal.

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