Leggo Libia. Da colonia italiana a colonia globale di Paolo Sensini (Jaca Book, 2011, 2017) e vi trovo scritto esattamente quello che vorrei leggere: un dato che fa nascere il sospetto che non si tratti di un’operazione editoriale troppo “rigorosa” dal punto di vista documentativo, in particolare per l’utilizzo di alcune fonti particolarmente “sospette” a cui l’Autore ha voluto affidarsi nei passaggi cruciali (parlo di Alex Jones, Giulietto Chiesa, Thierry Meyssan e Webster Tarpley).
Spiace dover iniziare una recensione in tal modo, ma la “dichiarazione di guerra” che il mainstream ha lanciato contro l’informazione alternativa a partire dal 2016 (in modo palese, s’intende, ché prima almeno lo faceva in maniera più sobria), quando ha imposto all’opinione pubblica internazionale nuovi mantra quali fake news, post-verità o fact checking, obbliga a un cambio di passo anche dall’altra parte della “barricata”. Non c’è più quindi molto spazio per la faciloneria e l’improvvisazione, né per gli alibi ricorrenti atti a giustificare la solita cantonata (“ingenuità”, “penuria di mezzi”, I want to believe ecc…).
Tutto questo per dire che se un libro mi racconta la guerra di Libia con le fonti più sputtanate del complottismo internettiano, è davvero complicato prenderlo sul serio. E, si badi bene, questo non ha nulla a che fare con la qualità dello scritto (che è eccellente) né con la deontologia dell’Autore (che agisce totalmente in buonafede, ma si veda sopra quanto dicevo di questi “alibi” nel nuovo contesto informativo che si va delineando).
Veniamo tuttavia al volume: la Libia di Gheddafi non era sicuramente un inferno come ci hanno raccontato i media occidentali, ma non per questo dobbiamo convincerci che fosse un paradiso. Sicuramente era tra i Paesi più benestanti del Terzo Mondo (non che ci volesse molto, se consideriamo la sua collocazione geografica ed escludiamo dal blocco la “Cindia”) ed è accettabile anche che fosse “l’unico paese petrolifero con una redistribuzione della ricchezza”. Però non è che Gheddafi fosse un filantropo o un gigante politico: era solo un rappresentante della vecchia guardia arabo-nazionalista che ha provato a sopravvivere ai tempi della cosiddetta “mondializzazione”. Possiamo rispettarlo -e anche amarlo- da militanti, non da storici: altrimenti scadiamo nella più squallida delle “narrazioni”.
Non sembrino leziose certe indicazioni “metodologiche”, poiché in questo ambito ormai lo stile è tutto: altrimenti anche la “bomba” che il rais volesse creare una valuta panafricana alternativa al franco CFA si perde nel flusso di bufale e svarioni, come in effetti accade nel libro stesso, che non approfondisce affatto la questione e “buca” una fonte diretta -e autorevole- come Wikileaks, la quale tra le famigerate email clintoniane ha reso pubblica anche quella in cui il “Segreto di Pulcinella” viene messo nero su bianco da un funzionario democratico (che in tale contesto non ha alcuna ragione di mentire): France’s client & Qaddafi’s gold.
Gli stessi rilievi valgono nei riguardo dell’impostazione del “racconto della guerra”: da una parte le primavere arabe ridotte ad al-Qaeda, dall’altra Gheddafi ultimo bastione dell’anti-imperialismo. Ripeto: dal punto di vista politico l’argomento è assolutamente spendibile, soprattutto “col senno di poi” della cannibalizzazione di qualsiasi “ribellione moderata” da parte dell’estremismo islamico in Medio Oriente. Tuttavia da quello storico, scientifico, saggistico (come volete), purtroppo al bianco e al nero deve subentrare un pacato e poco suggestivo grigio.
Curb your enthusiasm, insomma, come direbbe un funzionario del Deep State che magari ha dovuto fare un po’ di lavoro sporco ma mai si sarebbe aspettato che gli “alleati” gli ammazzassero un ambasciatore appena atterrato: bisogna del resto mettere in conto che le “narrazioni” complottistiche variano di molto anche a seconda delle nazionalità. Voglio dire che se si ci rivolge a “Infowars”, chiaramente ci si troverà di fronte a una fonte più incline a porre gli Stati Uniti al centro dell’universo e a mettere in secondo piano l’interventismo anglo-francese. Viceversa, l’informazione alternativa italiana ingigantirà quest’ultima parte della vicenda, dipingendo Obama e Clinton quasi come galoppini di Sarkozy e Cameron.
Non è pedanteria, ci tengo ancora a precisarlo (in maniera un po’ pedante, lol), perché gli errori e le imprecisioni “alla fonte” poi si riflettono anche sui “rivoli”: prendiamo il caso del generale Haftar, che compare infine nei capitoli “aggiornati” al 2017. Per parlarne, Sensini si affida nientedimeno che alla penna di Domenico Quirico (Il Grande Califfato, 2015):
«Un generale fellone che Gheddafi liquidò non perché ne temesse i sussulti democratici, ma perché con un esercito sterminato si era fatto umiliare nella famosa “guerra dei Toyota”, dai predoni ciadiani. Era a libro paga della Cia, ovviamente. Per anni ha abitato a due passi dalla sede dell’Agenzia, a Langley. A questo velleitario golpista hanno dato soldi e armi».
Bene, ci può stare (peccato sia, *ancora*, una ricostruzione giornalistica e non storica). Tuttavia non ci si spiega allora perché questo Haftar sia diventato per qualche tempo una sorta di idolo dell’area a cui fa riferimento anche Sensini (o perlomeno le sue fonti), se non per il fatto che l’impostazione da “tifosi” ha costretto molti a entusiasmarsi per alcune sue opportunistiche “sparate” filorusse.
Dunque questa è la morale della storia: il “grigiore” dovrebbe prevalere su tutto. Per analizzare l’intervento delle grandi potenze in una guerra civile, è sempre opportuno affidarsi alla logica del figlio di puttana (Gheddafi era quello degli italiani) piuttosto che a quella “martirologica”. Altrimenti, se continuiamo a raccontarci le favole che ci piacciono, i “padroni della voce” avranno sempre l’ultima parola sulla prossima guerra.